Minore attenzione viene però dedicata a una componente fondamentale dell’inflazione: il rincaro delle materie prime su scala mondiale, che genera timori presso gli esperti ma certamente viene meno osservato dall’opinione pubblica. La ripresa del 2021, o meglio il rimbalzo, si poggia su questo rincaro che ha portato i prezzi di molte commodity ad aumenti senza precedenti e gli indici a triplicare in pochi trimestri. A titolo di esempio, il Commodity Index di Oxford Economics è passato da circa 200 nel 2017 a oltre 700 oggi, superando i livelli raggiunti negli anni di ripresa post-crisi finanziaria del 2008. Prezzi in ascesa per molte materie di base come minerale di ferro, rame e alluminio, ma anche legname, petrolio e alimentari, senza dimenticare un nuovo attore che domina sempre più la scena mondiale: i metalli rari e, all’interno di quel gruppo, le terre rare. Dunque, se la prospettiva d’inflazione preoccupa, uno dei segmenti più delicati è rappresentato proprio dai prezzi delle commodity. Ma è un timore con ogni probabilità destinato a rientrare. I rincari sono infatti il risultato di ragioni specifiche emerse proprio a causa delle chiusure di attività nel periodo acuto della pandemia. A causa di queste chiusure si sono creati colli di bottiglia nella produzione di molte materie prime e, quando la domanda è ritornata, le limitazioni produttive si sono fatte sentire. Un altro fattore è costituito dalle modifiche in atto nelle catene di fornitura e nella logistica di molte aziende, spaventate dall’eccessiva dipendenza da mercati esteri. Molte aziende occidentali hanno infatti scoperto che impianti produttivi collocati nel Far East, e soprattutto in Cina, costituiscono punti di rischio che in situazioni di crisi espongono l’azienda a rotture di approvvigionamento estremamente costose. Lo si è visto in modo esemplare nel caso dell’industria elettronica e, forse ancor più, nel settore automobilistico.