Nel gennaio 2010 il servizio di copertina dell’Economist – dedicato alle donne in America – apriva con una dichiarazione trionfale: “In una fase storica nella quale il mondo è a corto di cause meritorie, eccone una che vale la pena di celebrare: nei prossimi mesi le donne supereranno la soglia simbolica del 50% e verranno a costituire la maggioranza della forza lavoro americana”. Una dichiarazione di vittoria che, a conti fatti, mi è sempre sembrata prematura. Anche se nel 2010 le donne americane hanno superato effettivamente quella soglia del 50% (e rappresentano attualmente il 49,8% della forza lavoro non agricola), le stesse vecchie diseguaglianze continuano a sussistere. 
Continuiamo a guadagnare meno degli uomini, ad avere meno prospettive di carriera e a contare di meno nel processo decisionale. 
In quasi tutti gli aspetti della vita – in America e altrove – sono quasi sempre gli uomini a fissare le politiche, ad allocare le risorse, a dirigere le aziende, a definire i mercati e a stabilire quali narrazioni enfatizzare. Nel frattempo, i miglioramenti ottenuti dai lavoratori non si sono quasi mai estesi a tutte le donne. Le donne tradizionalmente più emarginate – le donne di colore, le donne povere, le lesbiche e le transgender – sono ancora intrappolate in lavori pagati al minimo sindacale, escluse dai ruoli manageriali e particolarmente esposte a molestie e violenze legate al genere.